Al Sinodo nessun vescovo dalla Cina, solo Hong Kong e Taiwan. Sintomo delle difficoltà dell'intesa con Pechino
CITTÀ DEL VATICANO, 08 LUG - Nell'elenco, pubblicato ieri, dei partecipanti al Sinodo dei Vescovi sulla sinodalità nella Chiesa, in programma in Vaticano il prossimo ottobre, tra i membri di diritto inviati dalle Conferenze episcopali asiatiche in effetti la "Cina" viene menzionata: ma non si tratta della Repubblica Popolare, bensì dell'isola di Taiwan, con la sua Chinese Regional Bishops' Conference. E il rappresentante che interverrà alla sessione ordinaria dei vescovi sarà mons. Norbert Pu, vescovo di Kiayi, diocesi del sud ovest dell'ex Formosa.
Di vescovi della Cina continentale, invece, nel Sinodo di quest'anno (e nella successiva seconda sessione dell'ottobre 2024) non c'è traccia: e se si vuole trovare un ponte con l'episcopato cinese bisogna andare, tra i membri di nomina pontificia, al gesuita mons. Stephen Chow Sau-Yan, vescovo dell'ex colonia britannica di Hong Kong.
Un bel passo indietro - sottolinea anche l'agenzia del Pime, AsiaNews - rispetto ad esempio al Sinodo sui giovani del 2018, celebrato appena poche settimane dopo la prima firma dell'Accordo provvisorio tra la Santa Sede e il governo di Pechino sulla nomina dei vescovi, a cui poterono partecipare due vescovi cinesi: mons. Giuseppe Guo Jincai, vescovo di Chengde (uno dei sette vescovi già ordinati "illegittimamente" ai quali papa Francesco ha tolto la scomunica) e mons. Giovanni Battista Yang Xiaoting, vescovo di Yan' An.
Oggi invece papa Francesco deve tornare ad affidarsi solo alla Chiesa di Hong Kong, da decenni cerniera con le comunità cattoliche in Cina, come ha testimoniato anche il recente viaggio di mons. Stephen Chow a Pechino.
Il ritorno all'indietro è evidente e, rileva ancora l'agenzia missionaria, "fotografa in maniera eloquente lo stato attuale dell'Accordo provvisorio, rinnovato lo scorso anno ma poi seguito solo da forzature da parte di Pechino senza alcuna nuova nomina concordata". Un primo e preoccupante incidente di percorso nei rapporti tra Santa Sede e autorità di Pechino, ad appena un mese dal secondo rinnovo dell'accordo sulla nomina dei vescovi, era stata la "cerimonia di installazione", avvenuta il 24 novembre scorso a Nanchang, di mons. Giovanni Peng Weizhao, vescovo di Yujiang (Provincia di Jiangxi), come vescovo ausiliare di Jiangxi, diocesi non riconosciuta dalla Santa Sede.
Una notizia del tutto in difformità dallo spirito e dalla lettera dell'Accordo, che fu accolta in Vaticano "con sorpresa e rammarico". Altra decisione unilaterale delle autorità cinesi, tra il marzo e l'aprile scorsi, l'insediamento come nuovo vescovo di Shanghai di monsignor Shen Bin, già vescovo di Haimen, senza il consenso del Vaticano e tale da creare un "caso diplomatico" tra la Santa Sede e la Cina.
Tanto da far poi lanciare a papa Francesco, il 24 maggio in occasione della relativa Giornata mondiale di preghiera, un inedito ed esplicito appello pubblico per la "pienezza" e la "libertà" dell'annuncio della fede cattolica in Cina e dell'azione della Chiesa. In tale contesto, la partecipazione di vescovi della Cina continentale a un Sinodo a Roma, che nel 2018 era stata possibile e presentata come un frutto dell'Accordo, oggi non lo è più. Come del resto i vescovi della Cina continentale non hanno potuto partecipare né alle iniziative delle Chiese dell'Asia del percorso sinodale né alla Conferenza di Bangkok per i 50 anni della Fabc, la Federazione delle Conferenze episcopali asiatiche.
(Questo articolo è stato pubblicato oggi dall'ANSA; Foto: Vatican News)