L'Islam e la fraternità umana
La riflessione teologica deve riscoprire il valore costitutivo della condivisione di vita e della preghiera tra credenti, come luogo teologico decisivo per una teologia non solo interreligiosa ma dialogale, ripensata cioè tenendo conto dell’altro, pur nella fedeltà e rispetto della propria identità. È quanto riportano due docenti della Facoltà teologica del Triveneto, i proff. Sottana e Osto, dal congresso "Islam and human fraternity" (Abu Dhabi, 4-7 febbraio 2024).
Don Giulio Osto e don Virgilio Sottana, docenti della Facoltà teologica del Triveneto, hanno partecipato ad Abu Dhabi al IV Congresso internazionale Islam and human fraternity (4-7 febbraio 2024), promosso da “Pluriel (Piattaforma universitaria per la ricerca sull’islam in Europa e Libano”, per studiare gli impatti del Documento sulla fratellanza umana, a cinque anni dalla firma da parte di Papa Francesco e del Grande Imam Al-Tayyib.
Don Sottana (membro del gruppo di ricerca di Roma Gregoriana-Pisai di Pluriel e docente dell’Istituto superiore di Scienze religiose di Belluno-Feltre, Treviso, Vittorio Veneto) e don Osto (docente dell’Issr di Padova) riportano in quest'intervista di Paola Zampieri quanto è emerso dai lavori tenuti nella capitale degli Emirati Arabi.
A 5 anni dalla firma, quale è stato l’impatto del Documento sulla fratellanza umana nella convivenza fra cristiani e musulmani nel mondo?
«Dal congresso è emerso che il concetto di “fraternità” sta offrendo un contributo significativo nel ripensare la convivenza umana, non solo dal punto di vista religioso, ma anche a livello socio-culturale, giuridico e geopolitico. Non è un caso che la riflessione sia stata organizzata attorno a tre macro aree: socio-giuridica, geopolitica e teologico-dialogica. È stato molto utile per noi teologi interagire con altre competenze e prospettive che risultano stimolanti anche per la riflessione teologica. In particolare, sono stati offerti esempi e analisi di esperienze e iniziative relative a diversi contesti. Ad esempio, in Canada/Quebec, il progetto portato avanti dalla Conferenza episcopale canadese insieme al Consiglio degli imam; in Singapore, l’impulso sull’esperienza di IRO (Inter Religious Organizations), nata dopo la seconda guerra mondiale. Anche in Italia, un progetto interessante riguarda il mondo della scuola, dove il Documento ha ispirato attività didattiche innovative curate dal prof. Antonio Cuciniello, islamologo, docente alla Università Cattolica del Sacro Cuore».
In ambito socio-giuridico emerge il tema della cittadinanza nelle società multiculturali e multireligiose, con particolare riferimento alle minoranze religiose. Quali buone pratiche per garantire a tutti la libertà religiosa e il riconoscimento dei diritti delle minoranze?
«Un passaggio del Documento è stato al centro di alcuni interventi: «è necessario impegnarsi per stabilire nelle nostre società il concetto della piena cittadinanza e rinunciare all’uso discriminatorio del termine minoranze, che porta con sé i semi del sentirsi isolati e dell’inferiorità; esso prepara il terreno alle ostilità e alla discordia e sottrae le conquiste e i diritti religiosi e civili di alcuni cittadini discriminandoli». In questa prospettiva è stata sottolineata più volte l’esigenza di chiarire il concetto di cittadinanza che assume contorni molto diversi a seconda del contesto e del retroterra culturale e religioso. Ciò che va promosso è innanzitutto un approccio alle minoranze nel senso di una valorizzazione delle differenze e della tutela della pluralità. La prospettiva sostenuta è quella di una cittadinanza sempre più inclusiva (inclusive citizenship)».
In ambito geopolitico: qual è il ruolo della religione e dell’ideologia negli attuali conflitti? Ci sono esempi positivi di processi volti a contrastare gli estremismi religiosi e l’intolleranza?
«È emerso in modo consistente il fatto che le religioni non sono solo parte del problema, ma anche della sua soluzione, in particolare nell’essere un fattore in causa nel ripensamento di prospettive economiche, sociali e giuridiche che favoriscano una coesistenza pacifica. In questo senso, alcuni aspetti dell’esperienza da noi vissuta sono stati molto significativi. Ad esempio, il congresso stesso è stato aperto dall’attuale Ministro per la Tolleranza e la Coesistenza degli Emirati Arabi Uniti Sheikh Nahyan bin Mubarak Al Nahyan. Com’è noto, in tale Stato, l’attenzione alla coesistenza di una molteplicità di appartenenze etniche e religiose è particolarmente forte (su dieci milioni di popolazione totale, ben nove sono costituiti da immigrati). Non è un caso che anche all’interno nel Qas al Watar (Palazzo Nazionale) , visitato dai partecipanti al congresso, la firma del Documento di Abu Dhabi abbia un posto di rilievo, attraverso una presentazione multimediale permanente.
Il congresso, inoltre, ha previsto una visita guidata alla Grande Moschea Sheik Zayed una delle più grandi del mondo, dove l’accesso per tutti i visitatori avviene attraverso un lungo percorso denominato Tolerance Path (Cammino della tolleranza) che accompagna le persone con immagini e brevi testi inerenti la firma del Documento e altri fattori di promozione della convivenza pacifica tra credenti di diverse religioni.
Infine, anche la scelta di costruire la celebre Abrahamic Family House è un messaggio molto forte al mondo intero per un paradigma socio-culturale-politico diverso, rispetto alla convivenza pacifica tra credenti di diverse religioni».
Nell’ambito della teologia e del dialogo interreligioso, qual è la riflessione scaturita dal Documento? Cristiani e musulmani come stanno ripensando la loro comprensione della fraternità in risposta all’ideale della fratellanza universale?
«Una questione centrale è quella che interpella cristiani e musulmani a comprendere la fraternità a partire dalla propria tradizione di appartenenza, ma in dialogo con le comprensioni gli uni degli altri, tenendo conto che il Documento fonda la stessa a partire proprio dalla fede in Dio, come recita la prima affermazione: «La fede porta il credente a vedere nell’altro un fratello da sostenere e da amare». Qui ci piace ricordare anche la straordinaria, ed efficace, affermazione del Papa, nel suo discorso all’incontro interreligioso tenuto sulla Piana di Ur dei Caldei (Iraq), il 6 marzo 2021: «L’Oltre di Dio ci rimanda all’altro del fratello».
In questa prospettiva, è emerso dal congresso che la riflessione teologica deve riscoprire il valore costitutivo della condivisione di vita e della preghiera tra credenti, come luogo teologico decisivo per una teologia non solo interreligiosa, ma dialogale, ripensata cioè tenendo conto dell’altro, pur nella fedeltà e rispetto della propria identità. Più volte le riflessioni hanno portato all’attenzione la testimonianza singolare dei monaci di Tibhirine, in Algeria, e gli scritti di padre Christian de Chergé, che si chiedeva: “Come la vita spirituale dell’altro interpella la mia?”».
Quali questioni vengono sollevate, rispetto alle interpretazioni tradizionali, al termine “fraternità” e al suo significato religioso?
«Le questioni emerse sono molte, considerando gli oltre trenta contributi offerti. Ci piace sottolineare che le tre lingue ufficiali del congresso sono state sempre l’arabo, l’inglese e il francese, segno evidente di attenzione fraterna. Tra le varie implicazioni che richiedono ulteriori approfondimenti, la libertà di coscienza costituisce un terreno sul quale confrontarsi in modo più ampio, sia per arrivare a una comprensione condivisa sia per promuoverla nella integralità dei suoi aspetti. Ad esempio, diversa è la libertà di coscienza dalla sola libertà di culto; un conto è la dimensione personale e un altro la sua tutela giuridica».
Come possono cristiani e musulmani sviluppare una nozione di fratellanza che abbracci tutta l’umanità?
«La prima cosa, che da tempo è coltivata e sottolineata da tutti coloro che si occupano di dialogo interreligioso, è la priorità della formazione. Al congresso si è accennato a due luoghi, in particolare, quello della scuola e della famiglia. Quanto le nostre comunità cristiane investono su questo versante della formazione che riguarda la fraternità di tutti, non solo “dei nostri”? Il congresso ha fatto emergere come l’orizzonte stesso dell’incontro-con-l’altro-da-me sia decisivo e necessario per favorire la costruzione stessa di una identità evangelica all’altezza del compito che la contemporaneità ci affida. In questo senso, una buona pratica da favorire rimane quella di occasioni di incontro concreto tra cristiani e musulmani, e altri credenti, a partire dalle reciproche festività, da momenti di scambio interculturale e da iniziative promosse insieme, per una mutua conoscenza reale. Sono sempre le persone a incontrarsi, più che le religioni».
(Fonte e Foto: L’intervista di Paola Zampieri è pubblicata sul sito della Facoltà teologica del Triveneto)