Ballottaggio presidenziale in Iran: vince il riformista Pezeshkian
Il riformista Masoud Pezeshkian ha vinto le elezioni presidenziali in Iran al ballottaggio contro Saeed Jalili, conservatore e sostenitore di legami più stretti con Russia e Cina. Anche se il presidente non ha un impatto diretto sulla politica dell’Iran, è coinvolto nella scelta della Guida suprema, ruolo al momento ricoperto da Ali Khamenei, 85 anni. L’affluenza si è attestata intorno al 50%, mentre al primo turno si era fermata a meno del 40%.
Al secondo turno delle elezioni presidenziali, la scelta che si proponeva agli iraniani ai ballottaggi era netta e rifletteva due identità del paese: da una parte Saeed Jalili, per due decenni vicino ai centri di potere e alla guida suprema, l’85enne Ayatollah Ali Khamenei, e dall’altra Masoud Pezeshkian, outsider riformista che sostiene una cooperazione pragmatica con l’Occidente. Il voto si è svolto in un clima di sfiducia misto a disinteresse che, secondo i critici, rifletteva l’opposizione di gran parte dei cittadini alle crescenti restrizioni imposte dai vertici della Repubblica islamica dopo l’ondata di proteste scatenate nel settembre 2022 dall’uccisione di Mahsa Amini.
Durante gli ultimi comizi della campagna, i due candidati alla successione di Ebrahim Raisi, morto in un incidente aereo lo scorso maggio insieme al ministro degli Esteri Hossein Amir-Abdollahian e ad altri funzionari, hanno offerto visioni opposte sulle prospettive del paese e delle sue relazioni con l’estero. I dibattiti si sono concentrati su diverse questioni critiche, tra cui l’impatto delle sanzioni, la lotta alla corruzione, i rapporti con l’Occidente e il divieto di Internet. Anche la questione della repressione governativa e della legge sul velo è stata affrontata, ma è difficile immaginare cambiamenti significativi nell’immediato. Inoltre, le difficili circostanze del paese lasciano poco spazio alla creatività e molti temono che, indipendentemente dall’esito del voto, anche la politica estera rimarrà invariata.
Chi è Masoud Pezeshkian?
Nato nel 1954 a Mahabad, nell’Iran nordoccidentale, da padre azero e madre curda, Masoud Pezeshkian è un cardiochirurgo, ex direttore della Tabriz University of Medical Sciences e ha svolto l’incarico di ministro della Salute sotto l’amministrazione del presidente riformista Mohammad Khatami. Nel 2006 è stato eletto come deputato in parlamento e ha ricoperto il ruolo di vicepresidente dell’emiciclo. Ha più volte sostenuto cause riformiste sebbene gli analisti lo descrivano più come un “indipendente”, dopo la morte di Mahsa Amini affermò che era “inaccettabile nella Repubblica islamica arrestare una ragazza per il suo hijab e poi consegnarne il cadavere alla famiglia”. Mentre le proteste si diffondevano in tutto il paese e le Guardie della Rivoluzione mettevano in atto una sanguinosa repressione del dissenso, avvertì che la violenza non avrebbe creato altro che rabbia e odio duraturi nella società. “È colpa nostra – aveva detto in un’intervista alla Tv di stato iraniana Irinn – Vogliamo instillare la fede religiosa con l’uso della forza. Questo è scientificamente impossibile”. Anche sul velo le sue posizioni sono moderate, ma senza sfidare direttamente il sistema, e riflettono le cautele dell’essere un politico riformista all’interno di una rigida teocrazia sciita. Il suo principale sostenitore è l’ex ministro degli Esteri Mohammad Javad Zarif, che ha negoziato l’accordo nucleare del 2015 con le potenze mondiali, naufragato a causa del ritiro unilaterale dell’amministrazione Usa di Donald Trump.
L’ammissione del riformista Pezeshkian, probabilmente incluso dai Guardiani della Rivoluzione nella lista dei candidati per aumentare l’affluenza alle urne, non è comunque riuscita a fermare l’emorragia di partecipazione. Un’elevata affluenza era fondamentale per la legittimità del regime e, in vista delle elezioni, Khamenei aveva esortato gli iraniani a recarsi in massa alle urne. Il primo turno lo scorso 28 giugno, tuttavia, ha rilevato l’affluenza più bassa mai registrata ad un’elezione presidenziale dalla fondazione della Repubblica islamica nel 1979.
Il rifiuto per il voto, secondo gli osservatori, evidenzia il malcontento crescente di una popolazione che sta perdendo fiducia nel sistema clericale che governa il paese con il pugno di ferro da 45 anni. Anche tra i conservatori sembra esserci molta rabbia e disillusione, e alcuni tra cui quelli che al primo turno avevano sostenuto il candidato ultraconservatore Mohammad Bagher Ghalibaf, hanno annunciato a sorpresa che al ballottaggio avrebbero dato il loro voto al riformista Pezeshkian a spese del suo avversario, il conservatore Jalili. Quella che all’apparenza sembra una contradizione mostra in realtà che il blocco conservatore al suo interno è più diviso di quanto si creda e che alcuni ritengono necessario allontanarsi dalla rotta politica più intransigente, quella del defunto presidente Raisi e che Jalili probabilmente continuerebbe a seguire.
Le presidenziali si sono svolte in un paese in preda ad una profonda crisi economica: milioni di persone vivono al di sotto della soglia di povertà, sprofondati in un’economia paralizzata dalle sanzioni. Il tasso di inflazione annuale non scende sotto il 30% da più di cinque anni e a giugno si è attestato al 36,1%. Una situazione che compromette irrimediabilmente il potere di acquisto degli iraniani. Per questo, Pezeshkian ha sottolineato la necessità di riprendere il dialogo con l’Occidente e trovare un modo per porre fine alle sanzioni.
Al contrario, i rapporti di Teheran con l’Europa e gli Stati Uniti sono solo peggiorati negli ultimi mesi, a causa del sostegno della Repubblica Islamica ai gruppi militanti in tutto il Medio Oriente, all’infiammarsi delle tensioni con Israele e al rifornimento di droni shahed alla Russia. L’Iran ha anche intensificato il suo programma nucleare, ritirando la cooperazione con l’organismo di controllo nucleare delle Nazioni Unite, l’Agenzia internazionale per l’energia atomica.
Indipendentemente dall’esito del voto di ieri, il fatto che Pezeshkian abbia preso oltre 10 milioni di voti, il 42,5% di quelli espressi al primo turno, è un campanello d’allarme per la leadership: persino coloro che sono abbastanza leali da recarsi a votare credono che il sistema abbia urgente bisogno di una correzione di rotta. “Che si tratti di riorganizzare l’economia, di rafforzare la giustizia sociale, di ottenere pari diritti per le donne o di ridurre l’isolamento internazionale - osserva l’analista Saeed Azimi dello Stimson Centre – gli iraniani sono più uniti che mai contro lo status quo”.
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