Gaza: lo scaricabarile sulla pace

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Israele e Hamas si accusano a vicenda di sabotare la proposta di cessate il fuoco che gli Stati Uniti vorrebbero, ma che non riescono ad imporre. Questo il punto di Alessia De Luca per l'ISPI.

Per la prima volta dall’inizio del conflitto, il Consiglio di sicurezza dell’Onu ha accettato una risoluzione per un cessate il fuoco a Gaza, ma non è detto che verrà attuata. Il piano, presentato dagli Stati Uniti, ricalca quello in tre fasi proposto dal presidente americano Joe Biden a maggio. Hamas lo ha rimandato al mittente con dei “commenti”, ribadendo che l’intesa non è raggiungibile a meno che Israele non accetti un cessate il fuco permanente. Il governo di Tel Aviv non ha commentato ufficialmente, ma nel corso della giornata alcuni mezzi d’informazione israeliani hanno riportato le parole di un funzionario del gabinetto di guerra secondo cui la risposta del gruppo armato palestinese “equivale a un rifiuto”. In serata, è stata poi smorzata ogni più tiepida speranza: il Segretario Usa Anthony Blinken ha dichiarato da Doha, dove si trova per cercare di superare lo stallo, che “alcuni dei cambiamenti proposti da Hamas sono realizzabili e alcuni no”. Ha inoltre aggiunto di ritenere che gli attuali divari siano “colmabili”, ma che ciò non significa che saranno colmati poiché “in definitiva dipende dalle persone che si impegnano ad accettarli”. Dal canto suo, il primo ministro e ministro degli Esteri del Qatar, Sheikh Mohammed bin Abdulrahman Al Thani, ha osservato che “sia Hamas che Israele sono stati controproducenti nel raggiungere un accordo di cessate il fuoco”. In assenza di una tregua, intanto, si moltiplicano i timori di un’escalation lungo il confine settentrionale: lunedì le forze israeliane hanno ucciso tre combattenti di Hezbollah; tra questi c’è anche Sami Taleb Abdullah, uno dei più alti comandanti di dell’organizzazione paramilitare nel sud del Libano.

Cessate il fuoco o fine del conflitto?

La questione è la stessa da mesi: Hamas vuole un cessate il fuoco permanente, Israele no. L’ennesima proposta di Anthony Blinken, che gli Stati Uniti dicono essere stata accettata da Israele –  anche se il premier Benjamin Netanyahu è molto ambiguo al riguardo – cerca di eludere la questione affermando che la fase “temporanea” di sospensione delle ostilità potrebbe trascinarsi all’infinito mentre si negozia la fine del conflitto. Nei giorni scorsi, Washington e i paesi arabi hanno moltiplicato le pressioni su Hamas perché accettasse l’intesa senza affrontare l’altro nodo della questione: una volta ottenuta la liberazione degli ostaggi, Netanyahu terrà fede all’accordo o riprenderà l’offensiva? Non è un dettaglio da poco, soprattutto considerando che il governo israeliano si è spostato ulteriormente a destra da quando Biden ha reso noto l’accordo, dopo che Benny Gantz si è dimesso dal gabinetto di guerra per la mancata elaborazione di un piano a lungo termine per Gaza. Ciò ha aumentato il peso degli estremisti religiosi e dei falchi nazionalisti che minacciano il premier di dimettersi casomai accettasse un’intesa. Che in questa situazione gli Usa non possano garantire per l’alleato lo ha fatto capire chiaramente un funzionario anonimo, ribadendo nelle ultime ore ciò che lo stesso Netanyahu ripete da mesi: “Israele non porrà fine alla guerra prima di aver raggiunto tutti i suoi obiettivi: l’eliminazione delle capacità militari e di governo di Hamas, la restituzione degli ostaggi e la promessa che Gaza non costituirà più una minaccia”.

Gli ostaggi non sono la priorità?

Mentre resiste alle pressioni americane, in patria Netanyahu è sempre più bersagliato dalle critiche dei familiari degli ostaggi, ancora nelle mani di Hamas, che chiedono a gran voce ad Israele di accettare l’accordo e riportarli a casa. Lo scorso fine settimana quatto di loro sono stati liberati in un’operazione delle forze speciali israeliane che ha ucciso più di 270 palestinesi, molti dei quali civili, suscitando l’indignazione internazionale. L’Alto commissario Ue Josep Borreel ha parlato di quello che è avvenuto nel campo profughi di Nuseirat come di una “carneficina”, mentre l’ufficio delle Nazioni Unite per i diritti umani si è detto “scioccato” dall’impatto dell’operazione di salvataggio sui civili palestinesi. La missione ha portato a sette il numero degli ostaggi liberati nell’ambito di blitz militari dell’Idf, un bilancio minimo rispetto alle 250 persone catturate il 7 ottobre, quando i militanti palestinesi fecero irruzione nel Sud di Israele uccidendo anche circa 1200 israeliani. La maggior parte di coloro che sono tornati vivi a casa sono stati consegnati in base a un accordo di cessate il fuoco temporaneo lo scorso novembre. A Gaza ne sono detenuti ancora 120, un terzo dei quali si presume siano morti. I loro parenti sostengono che il governo non abbia il diritto di rifiutare un accordo, in quanto le operazioni militari non li riporteranno tutti a casa sani e salvi.

Criminali di guerra?

Intanto, si moltiplicano le voci di esperti legali e giuristi internazionali che sostengono che negli ultimi nove mesi Israele abbia commesso crimini di guerra. Lo Stato ebraico è già alla sbarra all’Aia con l’accusa di genocidio e la Corte penale internazionale potrebbe presto spiccare dei mandati d’arresto per il premier Benjamin Netanyahu e il Ministro della Difesa Yoav Gallant. Oggi, anche una Commissione Onu composta da investigatori indipendenti ha accusato Israele di aver commesso crimini contro l’umanità durante l’offensiva a Gaza. Il conflitto – che finora ha causato almeno 37mila vittime palestinesi – è considerato tra i più distruttivi del 21° secolo, con gran parte dell’enclave polverizzata dai massicci bombardamenti e la maggior parte della popolazione sfollata e soggetta a una spirale di calamità umanitarie. “Il fatto che il tuo avversario stia infrangendo il diritto internazionale umanitario – spiega al Washington Post Adil Haque, professore di diritto alla Rutgers Law School – non cambia i tuoi obblighi”. I media israeliani riflettono per lo più le posizioni del governo e non mostrano le immagini della sofferenza dei palestinesi di cui, comunque, gran parte dell’opinione pubblica in Israele sembra disinteressarsi: “Non ne hanno parlato finora e non mi aspetto che inizino a farlo adesso – osserva Mairav Zonszein dell’International Crisis Group – ormai c’è una narrazione israeliana sulla guerra e una narrativa internazionale, e le due non si incontrano mai realmente”.

Il commento di Ugo Tramballi, Senior Advisor ISPI

“Il piano americano è in tre fasi. La prima, la più importante, prevede sei settimane di tregua, la liberazione di ostaggi israeliani in cambio di prigionieri palestinesi, l’ingresso di aiuti umanitari nella striscia. Fino a qui Bibi Netanyahu non era contrario, pur evitando qualsiasi forma di entusiasmo. Ma Joe Biden, trasformando una zucca in cocchio regale, ha aggiunto che durante le sei settimane le parti e la diplomazia internazionale avrebbero trattato per trasformare la tregua (appunto la zucca) in cessate il fuoco permanente (la carrozza dorata). Cioè la fine del conflitto. Su questo Netanyahu non ci vuole sentire. Al Palazzo di Vetro, a New York, l’ambasciatore israeliano Gilad Erdan, un superfalco, non è intervenuto. Ha parlato una diplomatica di rango inferiore, ribadendo che la guerra non finirà fino a quando Hamas non sarà eliminato. Antony Blinken, il segretario di Stato Usa arrivato nella regione per l’ennesima volta, ha detto che dopo la risoluzione Onu la palla è nel campo di Hamas: tocca a loro dire se sono d’accordo perché le cose vadano verso una soluzione. In realtà non risulta che Netanyahu abbia mai avallato il piano per come l’hanno esposto gli americani. La palla è, come sempre, ancora in entrambi i campi”.

[Questo articolo di Alessia De Luca è stato pubblicato sul sito dell'ISPI, al quale rimandiamo; Photo Credits: ISPI]