Israele: Netanyahu contro tutti

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Il premier israeliano combatte su molti fronti ma sempre da una parte sola: la sua. Questo il focus di Alessia De Luca per l'ISPI.

A quasi nove mesi dall’inizio del conflitto tra Israele e Hamas, Benjamin Netanyahu è un leader in guerra su molti fronti. Intanto l’avanzata delle truppe israeliane dentro la Striscia, nonostante un numero senza precedenti di vittime, non sta consegnando al premier israeliano la “vittoria totale” che aveva promesso: i combattenti di Hamas nell’enclave polverizzata dai bombardamenti ricompaiono in zone che le Idf avevano dichiarato ‘bonificate’ ormai da mesi. Il perché è evidente e lo ha spiegato ieri con inconsueta chiarezza il portavoce delle forze armate Daniel Hagari: “Hamas è un’idea che si è radicata nei cuori delle persone” ha dichiarato, “dire che lo distruggeremo è gettare sabbia negli occhi della gente”. Intanto il nord del paese è in ebollizione: da settimane un’offensiva dello Stato ebraico nel vicino Libano è considerata imminente, tanto da aver innescato la reazione preventiva da parte del leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah. “Diciamo che non vogliamo la guerra totale, perché la nostra lotta è un fronte di sostegno” ha dichiarato il leader sciita, ma “siamo preparati allo scenario peggiore” e se venisse scatenata una guerra aperta contro il Libano “la condurremo senza limiti".

Scontro con gli haredim?

Alla guerra combattuta si aggiunge quella di opinione che da mesi agita Israele dall’interno: ad alimentarla sono le manifestazioni dei familiari degli ostaggi, sempre più massicce e partecipate, e le resistenze della comunità ultraortodossa, esentata dal servizio di leva obbligatorio e che minacciano di lasciare il paese se il governo li costringerà “ad arruolarsi per Gaza”. La questione rappresenta una delle controversie di più lunga data della politica israeliana: a concedere loro l’esenzione dal servizio militare fu nel 1948, l’allora primo ministro David Ben Gurion, nel tentativo di compattare la comunità ebraica. A quell’epoca il provvedimento riguardava 400 giovani ma oggi – anche a seguito del fatto che gli haredim rappresentano, con le loro famiglie numerose, il segmento della popolazione più in crescita nelle società israeliana – sono circa 66mila gli studenti delle scuole rabbiniche in età di leva esentati dal servizio militare. “Se il governo ci costringerà ad arruolarci – ha detto chiaro e tondo il mese scorso il rabbino capo della comunità sefardita Yitzhak Yosef – allora lasceremo il paese”.

Ai ferri corti con i militari?

Sotto pressione da parte dell’opinione pubblica che, secondo i recenti sondaggi, preferirebbe il centrista Benny Gantz nel ruolo di premier, Netanyahu sembra essere ai ferri corti anche con i vertici militari: la scorsa settimana quando questi ultimi avevano annunciato delle “pause tattiche” nei combattimenti nella parte meridionale della Striscia per consentire la distribuzione di aiuti, il premier li aveva smentiti appena poche ore dopo definendo la sola idea “assurda”.  E ieri il portavoce dell’esercito Hagari ha di fatto contestato il governo sulla gestione della guerra e sull’assenza di una strategia per il ‘day after’ nella Striscia. “Questa storia di distruggere Hamas, di far scomparire Hamas, è semplicemente gettare sabbia negli occhi dell’opinione pubblica” ha detto Hagari all’emittente  Channel 13. “Hamas è un’idea, è un partito - ha aggiunto - È radicato nel cuore della gente: chiunque pensi che possiamo eliminare Hamas si sbaglia”. Le sue parole hanno provocato l’immediata reazione di Netanyahu, che ha ribadito in un comunicato ufficiale come l’obiettivo della guerra nella Striscia di Gaza è proprio “la distruzione della potenza militare di Hamas e del suo governo” nella Striscia, aggiungendo poi che l’esercito israeliano è “ovviamente” impegnato in questo senso.

Un azzardo di troppo?

I contrasti intorno al primo ministro e alla sua gestione del conflitto non hanno risparmiato gli esponenti del governo di emergenza nato all’indomani del 7 ottobre. La scorsa settimana Gantz, leader del principale partito d’opposizione blu e bianco, ha ritirato il suo sostegno dopo aver accusato Netanyahu di portare avanti la guerra per garantirsi la sopravvivenza politica. Ma nonostante le acque tumultuose in cui si trova a navigare, il premier riesce a mantenersi in sella grazie all’appoggio dei partiti dell’estrema destra a cui ieri ha fatto l’ennesima, pericolosissima concessione: il trasferimento di una parte della gestione amministrativa della Cisgiordania occupata ai dipendenti dal ministero guidato da Bezalel Smotrich. Una mossa che con ogni probabilità moltiplicherà l’espansione delle colonie e lo sviluppo degli insediamenti entrambi considerati illegali dal diritto internazionale. Il tutto mentre in politica estera il premier israeliano punta in modo sfacciato su un ritorno alla Casa Bianca di Donald Trump: ieri, con un attacco diretto all’attuale amministrazione, ha accusato Joe Biden di aver bloccato la consegna di armamenti a Israele. Una dichiarazione “priva di fondamento”, hanno fatto sapere alla Casa Bianca, ma che consente a Netanyahu – in vista di più che probabili elezioni anticipate - di rappresentarsi alla sua base di destra come l’unico in grado di tenere testa agli statunitensi. Più volte in passato questo genere di azzardi lo ha salvato dal baratro, ma uno dei tanti potrebbe rivelarsi quello di troppo.

Il commento di Valeria Talbot, Head ISPI MENA Centre

“La solitudine del numero uno, sono le parole che meglio sembrano descrivere la situazione del primo ministro israeliano Netanyahu mentre si amplia il fronte interno delle critiche nei confronti dell’azione del suo governo a Gaza. Dopo oltre otto mesi dal brutale attacco del 7 ottobre, non solo non si intravede la fine del conflitto in una Striscia ormai al collasso, ma appare sempre più evidente che la “vittoria totale” su Hamas non è un obiettivo realizzabile. Ed è proprio su questo che si sta consumando l’ennesima frattura interna, quella tra Netanyahu e i vertici militari, che lamentano anch’essi la mancanza di visione politica da parte della leadership israeliana sul futuro del territorio palestinese”.

[Questo articolo di Alessia De Luca è stato pubblicato sul sito dell'ISPI, al quale rimandiamo; Photo Credits: ISPI]