Israele: sciolto il gabinetto resta la guerra

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Il premier Netanyahu scioglie il gabinetto di guerra e definisce ‘inaccettabili’ le pause umanitarie, ma sul ‘day after’ non ha un piano se non quello di continuare la guerra a tempo indefinito. Questo il punto di Alessia De Luca per l'ISPI.

Appare sempre più caotica la scena politica in Israele dove il primo ministro Benjamin Netanyahu ha annunciato lo scioglimento del gabinetto di guerra che da nove mesi presiede le operazioni militari nella Striscia di Gaza. Netanyahu hai dichiarato che il gabinetto di guerra era stato istituito come parte di un accordo con il politico moderato Benny Gantz e il suo partito di unità nazionale. Con le dimissioni di Gantz, annunciate una settimana fa, il gabinetto di guerra “non ha più ragion d’essere”, ha spiegato il premier che d’ora in poi, per le operazioni militari, si consulterà con un gruppo ristretto di ministri, tra cui quello della Difesa, Yoav Gallant, e il ministro degli Affari strategici, Ron Dermer. È improbabile che lo scioglimento del gabinetto di guerra abbia un impatto significativo sul conflitto ma le conseguenze politiche potrebbero essere più ampie: la mossa di Netanyahu infatti è stata vista come un affronto dagli alleati di estrema destra della coalizione di governo, che in seguito alle dimissioni di Gantz avevano rivendicato un ruolo nel gabinetto di guerra dopo aver lamentato di essere stati esclusi per mesi dalle decisioni chiave. Intanto Amos Hochstein, inviato del Dipartimenti di Stato americano è atteso in Israele per colloqui volti a evitare che il conflitto si estenda al gruppo paramilitare sciita Hezbollah. Dall’inizio della guerra a Gaza, in ottobre, gli scontri a fuoco giornalieri sono peggiorati e decine di migliaia di civili sono sfollati su entrambi i lati della “Linea Blu” tra Israele e Libano.

Tra Netanyahu e Idf è scontro?

La dissoluzione del gabinetto israeliano arriva nel mezzo di una crisi istituzionale tra il premier e i vertici delle forze armate che ieri avevano annunciato delle ‘pause tattiche’ nelle operazioni militari nell’area meridionale di Gaza dalle 8 alle 19. L’obiettivo – hanno spiegato i militari  – sarebbe di consentire l’ingresso di cibo e aiuti nella Striscia, in preda a una catastrofe umanitarie senza precedenti. Poco dopo l’annuncio tuttavia, il premier Netanyahu ha criticato la decisione definendola “inaccettabile”. Le emittenti televisive israeliane hanno poi citato Netanyahu che criticava l’esercito, dicendo: “Abbiamo un paese con un esercito, non un esercito con un paese”. L’Idf aveva affermato che la pausa era stata coordinata con le Nazioni Unite e le agenzie umanitarie internazionali in occasione dell’Aid el Adha, tra le principali festività del calendario islamico. L’annuncio era stato accolto con favore da numerosi osservatori internazionali che da settimane invocano un cessate il fuoco che puntualmente si infrange contro le resistenze di Hamas e del governo israeliano. Questa mattina, il capo dell’agenzia umanitaria Unrwa Philippe Lazzarini ha reso noto che, nonostante l’annuncio di pause tattiche, sul Sud della Striscia e a Rafah le ostilità continuano “senza sosta”.

Bibi contro tutti?

Sul fronte interno, il premier Netanyahu deve tenere sotto controllo anche il crescente malcontento dell’opinione pubblica. Questa settimana, i manifestanti antigovernativi hanno indetto una serie di azioni pianificate con l’obiettivo di paralizzare strade e autostrade del paese e ottenere dall’esecutivo che si dimetta e indica elezioni entro il primo anniversario degli attacchi del 7 ottobre. Ieri migliaia di israeliani hanno sfilato per il lungomare di Tel Aviv per chiedere il rilascio degli ostaggi detenuti a Gaza e stasera è prevista una manifestazione a Gerusalemme davanti alla Knesset. In un video discorso rivolto alla folla l’ostaggio liberato Andrey Kozlov, salvato durante l’operazione della settimana scorsa a Gaza, ha chiesto a Israele di concludere un accordo con Hamas: “Per gli ostaggi che sono ancora a Gaza, c’è una decisione, una sola, si tratta di un accordo tra Israele e Hamas”. A Tel Aviv come a Cesarea, vicino all’abitazione privata di Netanyahu, la polizia ha rimosso i cartelli appesi dai manifestanti, effettuato arresti e in alcuni casi è intervenuta con la violenza per disperdere la folla. Lo stesso ex ministro Benny Gantz, che la scorsa settimana ha lasciato la coalizione di Netanyahu in polemica sul fatto che il premier non avrebbe nessuna strategia per il ‘day after’ nella Striscia di Gaza, ha partecipato a una manifestazione in un incrocio nel sud del paese.

Senza una visione?

Le dimissioni di Gantz, le proteste antigovernative e la questione del ‘day afer’ sono centrali per capire il dilemma di Benjamin Netanyahu: il premier israeliano si rifiuta di articolare un piano per il “giorno dopo” poiché questo implicherebbe per forza di cose affrontare lo status della Striscia di Gaza. Per ovvie ragioni, infatti, Israele considera illegittimo il governo di Hamas che ha controllato la Striscia per 16 anni, ma non considera l’Autorità Palestinese che amministra parti della Cisgiordania, un’alternativa adeguata. E non potrebbe essere altrimenti: se i due territori palestinesi fossero governati dalla stessa autorità, Israele si troverebbe ad affrontare maggiori pressioni per negoziare la creazione di uno Stato palestinese. “Finché esisterà il vuoto di potere a Gaza, la destra potrà ottenere ciò che vuole – osserva Meron Rapoport sul portale di informazione +972 –  la guerra potrà continuare, Netanyahu potrà prolungare la sua permanenza in carica e non ci sarà alcuna possibilità reale di aprire i negoziati di pace, che anche gli americani sembrano ora desiderosi di riavviare”. L’esercito, tuttavia, sembra stanco di questo vuoto, fatto di combattimenti senza fine e nessuna possibilità reale di vittoria. L’invasione di Rafah non ha fatto altro che aumentare il malcontento tra i ranghi militari. E l’uscita di Benny Gantz dal gabinetto di guerra ha cancellato ogni influenza moderatrice sul governo, lasciandolo ancor più esposto agli alleati della destra religiosa. Che sognano una guerra di logoramento e l’annientamento dei palestinesi. Ma il rischio, sempre più reale man mano che la violenza prosegue senza un orizzonte politico in vista, osserva Rapoport è che il conflitto finisca invece “proprio come fece la prima guerra del Libano: con il ritiro di Israele sotto una pressione militare sostenuta e il radicamento di una forza di guerriglia stabile al confine con il Libano”.

Il commento di Mattia Serra, ISPI MENA Centre

“All’indomani del 7 ottobre, la creazione di un gabinetto di guerra ristretto – che escludesse gli elementi della destra nazionalista religiosa – era stata posta da Gantz come la conditio sine qua non per formare il governo di unità nazionale. Tra fughe di notizie e polarizzazioni interne, in questi otto mesi il gabinetto era servito più come un terreno di scontro tra Netanyahu e Gantz che come una cabina di pilotaggio. Uscito Gantz dal governo, è venuta meno l’esigenza di mostrare all’esterno l’immagine di un governo (e di un paese) unito. Tutto sommato, e per quanto possa sembrare controintuitivo, lo scioglimento del gabinetto di guerra non avrà un impatto sulle operazioni militari a Gaza. È una decisione che toglie il primo ministro dall’imbarazzo di dover giustificare l’inclusione (o l’esclusione) di Ben-Gvir e Smotrich all’interno del gabinetto e che, allo stesso tempo, certifica come le redini rimangano sempre nelle mani di Netanyahu”.

[Questo articolo di Alessia De Luca è stato pubblicato sul sito dell'ISPI, al quale rimandiamo; Photo Credits: ISPI]