Striscia di Gaza: il "fronte" degli ospedali

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A Gaza si combatte intorno agli ospedali: medici, pazienti e civili in trappola e nessuna struttura sanitaria funzionante nel nord della Striscia. Leggiamo il punto dell'ISPI, Istituto per gli Studi di politica internazionale.

L’ospedale Al Shifa di Gaza non è più un ospedale o almeno “non funziona più come tale”. Lo ha reso noto il capo dell’OMS Tedros Ghebreyesus aggiungendo: “Il mondo non può restare in silenzio mentre gli ospedali, che dovrebbero essere rifugi sicuri, si trasformano in scenari di morte, devastazione e disperazione”. Intanto, il direttore Mohammad Abu Salmiya ha avvertito che il personale medico e i pazienti ricoverati “sono pronti ad evacuare se Israele lo consentirà”, poiché fuori dalla struttura – la principale ospedale della Striscia - infuria la battaglia tra le milizie di Hamas e l’esercito israeliano convinto che sotto la l’ospedale si nasconda il quartier generale del movimento armato e il leader dell’organizzazione Yahya Sinwar, ritenuto la ‘mente’ dell’attacco del 7 ottobre nel sud di Israele. Intanto, però, migliaia di persone – secondo le informazioni condivise con l’Organizzazione mondiale della sanità, all’ospedale al Shifa ci sono tra i 600 e i 650 pazienti ricoverati, tra i 200 e i 500 operatori sanitari e circa 1500 sfollati – sono intrappolate nel fuoco incrociato dei combattimenti. Secondo il ministero della Sanità di Gaza il bilancio delle vittime ha superato quota 11mila morti di cui quasi la metà bambini. Finora diversi neonati sono morti nelle incubatrici rimaste senza elettricità e il personale medico denuncia la mancanza di ossigeno, forniture mediche e carburante. Il viceministro della Sanità di Hamas a Gaza, Yussef Abu Rich, ha dichiarato all’agenzia France Presse che “tutti gli ospedali della parte nord della Striscia di Gaza sono fuori servizio”.

Anche la Lega Araba è divisa?

Sul fronte diplomatico, nel fine settimana si è levato da Riad l’appello del mondo arabo e islamico per la fine delle operazioni militari nella Striscia e il rilascio dei prigionieri. Al vertice straordinario della Lega Araba e dell’Organizzazione per la Cooperazione Islamica (OIC), il principe ereditario saudita Mohammed Bin Salman ha definito la guerra “una catastrofe umanitaria” che “dimostra il fallimento della comunità internazionale” e dell’Onu “nel porre fine alle gravi violazioni delle leggi umanitarie internazionali da parte di Israele”. Presente per la prima volta in Arabia Saudita dopo la riconciliazione tra i due paesi mediata dalla Cina anche il presidente iraniano Ebrahim Raisi, che ha esortato i paesi presenti a considerare l’esercito israeliano “un’organizzazione terroristica” e ad armare i palestinesi se continueranno gli attacchi a Gaza. Ma se i partecipanti al summit, come si legge nella dichiarazione finale, “rifiutano di descrivere questa guerra come autodifesa o di giustificarla con qualsiasi pretesto” al loro interno non mancano le divisioni. La proposta avanzata da alcuni di interrompere le relazioni economiche e diplomatiche con Israele o impedire agli Stati Uniti di utilizzare le loro basi nella regione per rifornire di armi lo Stato ebraico hanno incontrato la forte opposizione di altri, tra cui Emirati Arabi e Bahrein, che secondo fonti raggiunte dal sito The New Arab avrebbero respinto la proposta.

La reputazione europea finisce a Gaza?

Non è solo il mondo arabo e islamico però ad essere frammentato. In Europa la reazione israeliana all’attacco del 7 ottobre sta letteralmente spaccando i 27, con alcuni paesi come la Francia favorevoli ad un cessate il fuoco immediato o almeno una tregua e altri che, come la Germania, vi si oppongono perché convinti che una pausa nei combattimenti permetterebbe a Hamas di sopravvivere e riprendere fiato. Pertanto, al Consiglio Affari esteri di oggi si è saggiamente puntato di lavorare sui ‘contorni’ della questione, come l'assistenza umanitaria nella Striscia e la ‘strategia per il dopo’. Poco conta che questo non sia neanche lontanamente da considerarsi abbastanza e che la stessa inconsistenza dell’Europa ne boicotti qualsiasi candidatura a svolgere un ruolo di peso in un futuro tavolo dei negoziati. Al contrario, la credibilità globale del blocco dei 27 dipende da quanto fortemente farà pressione su Israele affinché accetti un cessate il fuoco umanitario, protegga i civili e consenta maggiori aiuti a Gaza. “Non ha senso – osserva Shada Islam su Euobserver - negare che mentre Gaza si trasforma in un cimitero per migliaia di bambini, la reputazione conquistata a fatica dell’Ue come strenuo difensore di un ordine internazionale basato sulle regole va in frantumi”.

Netanyahu lotta contro il tempo?

Dall’inizio delle operazioni sulla Striscia di Gaza il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu sa di essere in lotta contro il tempo e che, man mano che il conto delle vittime civili aumenterà, allo stesso modo aumenteranno le pressioni nei confronti di Israele perché fermi l’offensiva. E prima o poi anche gli Stati Uniti – dove il dibattito sulla posizione dell’amministrazione nei confronti di Israele sta infiammando i circoli democratici - non potranno più fare a meno di spingere Tel Aviv a una cessazione delle ostilità. Nel fine settimana la Francia è diventato il primo paese del G7 a rompere il fronte del sostegno a Israele “senza se e senza ma” evocando un vero cessate il fuoco. “Bambini, donne e anziani vengono bombardati, non c’è alcuna ragione per questo e nessuna legittimità – ha detto il presidente francese Emmanuel Macron - Quindi esortiamo Israele a fermarsi”. Anche il segretario generale delle Nazioni UniteAntonio Guterres, in un'intervista alla Cnn, è tornato sulle responsabilità israeliane nella difesa dei civili, ribadendo che "le leggi di guerra prevedono la protezione dei civili e l'esercito israeliano non lo sta facendo". È il terzo affondo del segretario generale, dopo aver definito la Striscia un "cimitero di bambini" e sostenuto che gli attacchi di Hamas "non sono arrivati dal nulla, ma dopo anni di soffocante occupazione subita dal popolo palestinese”.

Il commento. Di Eleonora Ardemagni, ISPI Senior Associate Research Fellow

“Il summit di Riyadh ha enfatizzato le divisioni nel mondo arabo e islamico sulla guerra: non sono emerse né azioni concrete (l’embargo sulla vendita di armi a Israele è puramente simbolico), né proposte nuove. La notizia sta soprattutto in quello che il vertice non ha deciso: nessuna rottura delle relazioni diplomatiche con Israele, né embarghi petroliferi. Insomma, a Riyadh è prevalsa la cautela dell’Arabia Saudita di MbS, che condanna l’offensiva militare di Israele ma senza strappi. La tenuta della distensione fra il regno saudita e l’Iran dipenderà dall’evoluzione della guerra. Infatti, più l’offensiva di Israele a Gaza continua, più gli Accordi di Abramo rischiano il logoramento e le normalizzazioni future di bloccarsi: sarebbe un punto a favore di Teheran. Però, se le milizie filo-iraniane dovessero aprire altri fronti, il livello della minaccia percepita da Riyadh e dalle monarchie vicine sarebbe maggiore e ciò accrescerebbe, nei fatti, la convergenza con Israele. A discapito così degli obiettivi regionali di Teheran”.

(Fonte: Ispi; Foto: Medecins sans Frontieres)